Mathilda di Mary Shelley

Titolo Originale: Mathilda

GB: 1818 (1° edizione 1959)

Pagine: 207

Protagonisti: Mathilda, Woodville

Casa Editrice: Darcy Edizioni

Data di Uscita: 20 luglio 2019

Mathilda di Mary Shelley

Dopo una serie di tragici lutti, tra cui quello del marito, Mary Shelley scrive il racconto Mathilda, condito da alcuni elementi autobiografici, sfoggiando tutte le sue doti di romantica drammaticità.Mathilda, sedicenne ricca di nascita ma orfana di madre, abbandonata da un padre che le dà la colpa per la scomparsa dell’amata sposa, è costretta a crescere con una zia avara di sentimenti.

Quando il padre decide di tornare da lei, succede qualcosa di inaspettato: la somiglianza della fanciulla con la madre è sorprendente al punto che l’uomo la crede una reincarnazione dell’adorata Diana, così da innamorarsi della figlia. Un racconto che è ossessione e passione, sfogo e dolore, lo stesso provato da Mary Shelley in vita. La sua penna sapiente rende immaginario quel che è stata per lei realtà.

Certi autori vengono definiti eterni proprio perché capaci di fissare su carta emozioni, sensazioni e accadimenti che riguarderanno bene o male tutti noi, a prescindere dal secolo, dalla diversa società e dalle differenze culturali.

I classici non sono altro che meravigliosi specchi per trovare noi stessi, appuntare le verità morali e etiche, affrontare i difficili e ingarbugliati nodi della nostra società così solitaria, e soprattutto comprendere cosa distingue e cosa rende un libro un capolavoro.

La Darcy editore lo sa benissimo e ci regala piccole indispensabili chicche letterarie che possono servire ai lettori a ricordare un senso della bellezza ormai perduto, a causa della troppa pubblicità e del consumismo esasperato che divora anche il mondo letterario, e dell’autore che spesso si perde preda di mille voci contraddittorie che tentano di educarne il gusto, di livellare gli stili e di offuscare la voce tonante di signora fantasia.

Eppure è solo quella capace di portarci attraverso differenti piani esistenziali, in quel regno delle idee in cui ritroviamo i semi che, un giorno felice, diventeranno libri.

Quello che mi accingo a recensire è un testo “perduto” e dimenticato della grande Mary Shelley conosciuta (spero) per il capolavoro horror di Frankstein. Un libro molto contraddittorio, un libro a tratti scabroso, dai temi arditi e moderni, capaci di scioccare per la “brutalità” dello stile le menti venate di perbenismo della buona società vittoriana.

Con Mathilda, Mary continua la sua innovativa opera letteraria, proponendo con una grazia venata di una certa propensione alle atmosfere tenebrose, un tema infuocato e quasi assurdo da ritrovare in quell’epoca apparentemente così chiusa, ossia l’incesto.

Un amore malato che turba gli animi quello descritto con immagini forti, tratte da scenari naturali che sembrano seguire perfettamente i moti anemici della protagonista, individuo assetato di amore, incolpevole eppure così fragile da caricarsi di un’inesistente responsabilità verso il pernicioso corso degli eventi che la magia dello stile della Shelley ci mostra in tutta la sua affranta crudezza.

Partecipi di un dolore che oggi reputiamo assurdo, come se il diritto di essere amato, conosciuto, rispettato e protetto dai propri genitori fosse un lusso concesso solo ai rampolli delle famiglie perbene.  

Ecco che, lungi dal reputare responsabile della pazzia il padre, reo di considerarla solo immagine sfuocata di un amore lontano e illusorio, Mathilda diventa essa stessa, perché educata in tal modo, il capro espiatorio del destino folle di un uomo che ha accettato ogni dono della vita come dovuto, fino a perdersi in strane e assurde congetture. Colpe inesistenti dunque, legate però alla concezione dell’epoca e forse della nostra, del suo sesso.

Lei donna, lei animo romantico e passionale, troppo per quei tempi costretti e improntati a un perbenismo di facciata, che riversa su un padre assente e profondamente egoista ogni suo afflato di tenerezza. Ed è questa la sua colpa: l’eccesso di tenerezza considerata la somma tentazione per un uomo fintamente perbene che tende a nascondersi e nascondere le proprie pulsioni più oscure.  

Ecco che la fanciulla, tanto evanescente sulla carta da sembrare un’ombra essa stessa, concepisce il suo bisogno di amore non come un diritto, ma come un mero regalo del destino, beffardo e crudele, che dietro il paradiso nasconde spade acuminate. Una felicità quindi non considerata dovere e diritto, ma concessione compassionevole. Come se Mathilda non fosse “umana”.Un’anima angosciata perché, come spiega perfettamente ai suoi ascoltatori attoniti: 

Quasi dall’infanzia sono stata privata di tutte le testimonianze di affetto che i bambini generalmente ricevono. Ho dovuto contare interamente sulle mie risorse, e ho gioito di ciò che potrei quasi chiamare piaceri innaturali, perché erano sogni e non realtà. La terra era per me una magica lanterna e io un’osservatrice e un’ascoltatrice ma non attrice.

 Una bambina non cresciuta, con l’anima marchiata a fuoco dall’impronta del dolore, della colpa, rea di aver pagato la sua vita con la morte della madre, adorata e idealizzata come donna perfetta. Eppure è la sua bambina che si fa strada con vagiti forti e con un mondo interiore ricco e variegato che però, ahimè, resta non compiuto e che la rende poco avvezza ai fatti umani naturali e “normali” e più vicina a un regno delle ombre che l’epilogo sembra restituirle pietoso: 

Non mi avete mai considerata parte di questo mondo, ma piuttosto un essere, che per una penitenza è stato inviato dal Regno delle Ombre e che trascorresse alcuni giorni piangendo sulla terra desiderosa di tornare nella sua patria natia

 Mathilda non è stata mai considerata una persona. Educata all’invisibilità, a scomparire lentamente giorno dopo giorno, fino all’attimo in cui comprende di non essere neanche per l’amato padre soggetto quanto piuttosto ricordo, o oggetto vano e lontano di rimpianti dolorosi.

E così Mathilda non è mai stata davvero viva perché nessuno si è mai preso la briga di farla nascere davvero. Perché per essere una bambina, una donna ha bisogno di concretezza, non solo di ideali e di idee. Non solo di immaginari scenari. Le idee dolorose e lievi come il vento hanno bisogno di movimento e di azione per non perdersi nel vento. In questo libro Wodville rappresenta la concretezza che a Matilde manca.

Rappresenta l’uomo che impara dal dolore, e lo rende uno stimolo per migliorare la vita di chi come lui è stato toccato dalle sue gelide dita. Ecco che forse ho l’ardire di asserire che Mathilda non è altro che il simbolo di una femminilità distrutta e annullata da una perniciosa mancanza di rispetto, quello che si deve non solo alla sua natura idealizzata ma alla materialità di un essere che prima di essere spirituale, evanescente, dolce angelo del focolare, consolazione degli afflitti, è carne e sangue, impegno e personalità.

Anche scomoda, anche infarcita di elementi meno paradisiaci.  Ancora una volta un autore classico, con quella dicitura che sa quasi di sdegnoso disinteresse, ci dimostra di essere non solo più maturo intellettualmente di noi, ma anche di avere il coraggio di andare laddove anche gli angeli esitano.  

Giudizio:

Classificazione: 5 su 5.

Alessandra Micheli

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