16 ottobre 1943 di JD Hurt

Italia: 2018

Pagine: 573

Protagonisti: Dalia, Christian

Genere: Romance Storico

Casa Editrice: Self Publishing

Serie Damned Soldiers #1

16 ottobre 1943 di JD Hurt

La mia vita comincia a Roma in un elegante palazzo di fronte al Circo Massimo nel 1926, ma trova compimento il 16 ottobre del 1943 al Portico D’Ottavia, nel ghetto di Roma. Non scordatevi questa data. E’ il giorno in cui l’esistenza così come la conoscevo è terminata per sempre. E’ il giorno in cui l’anima di un’ebrea ha smarrito i confini nel vuoto denso di sangue di un nazista.
Io sono Dalia Algranati. Sono quell’ebrea. Lui è Christian Shlesinger. Ed è quel sangue.

La mia vita comincia nel 1924 fra i boschi della Baviera, viene spezzata sei anni dopo nello stesso
luogo per poi frammentarsi ancora in Italia il sedici ottobre del 1943 al ghetto ebraico di Roma.
Vorrei scordare questa data, ma non posso. E’ il giorno in cui la guerra del mondo è divenuta asprabattaglia nel mio corpo. E’ il giorno in cui il sangue di un’ebrea ha colmato di veleno le vene di un nazista. Io sono quel nazista. Christian Shlesinger. E lei è il veleno. Dalia Algranati.

È molto difficile scrivere una recensione analitica su un libro come questo. Parlare dei personaggi, della trama e degli intrecci è possibile qualora il libro non tocchi corde profonde in noi stessi.

E non parlo di quelle private, che riguardano esperienze personali moderatamente belle o brutte, ma comunque nostre.  Parlo di querele legate a valori universali che quando vengono infranti, deturpati, rappresentano una ferita incurabile per tutta l’umanità e mettono in discussione le basi della nostra intera civiltà. Che civiltà più non appare, diventando piuttosto solo un grande e orribile contenitore in cui tutti riversano frustrazioni, delusioni, rabbie e vendette private, sentimenti così banali e così sciocchi davanti all’immensità del creato, che la famosa frase di Hannah Arendet appare pericolosamente reale, quasi che si fosse incarnata nella storia, l’avesse posseduta e resa il mostro che è.

“La banalità del male” è appunto la protagonista di questo libro, nei suoi personaggi scaraventati in un’irrealtà che purtroppo si è fatta strada con risa demoniache e sangue. Infatti le idee deliranti di un nazismo che si presentava quasi consolatorio di troppi graffi, si basavano sul nulla. Erano perciò irreali, un tentativo non di riscatto come è stato proposto, ma di atroce vendetta contro l’uomo.

Non c’è nulla di peggio di qualcuno che si sente ingiustamente privato di qualcosa e diventa odiosamente geloso della quotidianità dell’altro, della sua serenità, della sua semplicità, decidendo così di scaraventarlo nell’Averno.  

E in quell’orrendo abisso che sei convinto di guardare e che invece guarda te, l’altro è spersonalizzato e reso il nemico.

Nelle parole di Cristian, schiaffi sul mio volto, ritrovo le mille testimonianze di chi a quell’irrealtà che profuma di incubo, ha creduto. Ha creduto al modello d’uomo che era facilmente proponibile come la soluzione migliore. Nessuna coscienza, nessuna empatia, ma invece potere assoluto e disprezzo per ogni piccolo altro che smetteva di diventare il volto dietro al volto, quello in cui rispecchiarsi per ritrovare pezzi sparsi di noi stessi.

Nelle parole di Dalia ritrovo descritto l’orrore di essere improvvisamente non più persone ma razza. E raccontano bene il dramma di quel preciso periodo, di alleanze sulfuree, di rastrellamenti insensati, di una parte dell’Italia che si rivoltava contro se stessa, mentre il Matto Burattinaio con le mani sporche di sangue rideva sguaiatamente.

Gli ebrei non erano altro che persone convinte, come il loro fratello cattolico, della necessità dell’autoritarismo.  

Erano consapevoli di trovare in Benito il vate in grado di trasformarli finalmente in italiani, così come richiedeva a gran voce Giolitti ai tempi del sogno. Consapevoli che la patria era una parola che sulla lingua aveva lo stesso sapore dolce e paradisiaco del miele.

Ecco il dramma.

Una nazione incerta, acerba, giovane, piena di speranze che veniva manipolata da chi odiava il genere umano.  

Perché il razzismo e il nazismo non nasce da nient’altro che dall’odio, di sé, della vita e delle sue prove, di Dio e della natura. Tanto che se la natura sussurra la sua organizzazione interconnessa, dipendente da ogni parte come se fosse un organismo vivente, la risposta del razzista è un omicidio: la divisione dell’indivisibile. 

Provate a vivere senza un organo, senza  cuore, senza cervello. Provate a vivere smembrati.

E infatti la Hurt lo capisce e lo descrive.  

E prova a darci la speranza in un amore impossibile, tra due anime lacerate. Un amore che fa solo da sfondo alle mille contraddizioni, che è nutrito non da idilliaci sentimenti, come la bellezza del cielo rosato al tramonto, ma di sangue, odio, rabbia, rivincita, guerra, bombe e Auschwitz.

E nonostante la presenza di una storia d’amore, tutto il libro racconta, indirettamente, quell’orrore.  

Perché quando il mostro fagocita la vita, quando ci fa scoprire che pure il valore del rispetto, dell’uguaglianza, della fratellanza, sulla bocca della bestia umana diviene relativo, allora nulla è più possibile. Né redenzione, né amore, né speranza.  

Io credo che questo libro vada letto perché l’orrore si palesi ai nostri occhi abituati alla routine, alla banalità.

Perché ci risvegli come un pugno, perché ci faccia finalmente accorgere delle ombre dietro i finti ideali, i finti populismi, le soluzioni facili e immediate che individuano nell’altro il capro da sacrificare sull’olocausto del male.

Non si possono recensire certi romanzi.

Né raccontare.

Vanno letti, odiati e forse dopo averli posati sul comodino, amati, perché se si proverà rabbia, dolore, se le lacrime bruceranno le palpebre chiuse e Auschwitz risuonerà, come un demone con i suoi fragori nella notte con un tetro “mai più”, allora saremo salvi.

E forse liberi.

“Nessuno vuole infangare la memoria di Auschwitz. Il lager, ciò che hanno fatto i nazisti, l’orrore infinito di quei luoghi dove l’umanità è stata bruciata, rimarranno per sempre come cenere tatuata nei cuori degli uomini”

Li chiamano lager. Significa campi, ma sono solo la fame, la vergogna. Sono la morte che diviene catena di montaggio. Auschwitz è la punta dell’iceberg.

Giudizio:

Classificazione: 5 su 5.

Alessandra Micheli

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